E-commerce. Solo il 6% delle nostre esportazioni dei beni di consumo passa attraverso il canale web.

LA BANDA STRETTA DELL’EXPORT ONLINE

Le Pmi italiane ancora non sfondano sui marketplace internazionali

L’export del Made in Italy non viaggia ancora in digitale. Siete una piccola e media impresa?

Il modo migliore per esportare all’estero attraverso il canale online è quello di mettervi insieme ad altre piccole e medie imprese del vostro settore, creare massa critica e a quel punto aprire uno store virtuale sul principale marketplace digitale del Paese su cui si vuole puntare. Semplice. Peccato che in Italia non lo faccia praticamente nessuno. Le esportazioni dei beni di consumo made in Italy attraverso l’e­commerce sono in crescita, come dimostrano gli ultimi dati pubblicati dall’Osservatorio Export della School of Management del Politecnico di Milano: più 24% tra il 2016 e il 2015. Ma il valore complessivo resta ben poca cosa rispetto al totale dell’export italiano di beni di consumo: 7,5 miliardi di euro quelli venduti online, meno del 6 per cento. Per avere un termine di paragone della dimensione limitata del fenomeno, basta pensare che soltanto in Cina i consumatori spendono sul web oltre 700 miliardi di euro all’anno. Sempre secondo l’Osservatorio del Politecnico, solo il 6% delle imprese italiane che esportano online ci riesce grazie al sito corporate. Solo i grandissimi marchi, più noti, possono permetterselo. «Il grosso di chi esporta sul web spiega Riccardo Mangiaracina, direttore dell’Osservatorio export del Politecnico di Milano ­ utilizza i retailer come Yoox o Zalando, e i marketplace come Amazon o Tmall. In Cina, in modo particolare, tutto passa dalle grandi piazze online». Ed è proprio su queste grandi piattaforme di traffico commerciale che le piccole imprese italiane sono assenti. La prima nota dolente è che le associazioni di categoria non stanno facendo da collettore. Prendiamo il fashion, che con la sua quota del 60% rappresenta il settore italiano che esporta di più online: dal centro studi di Sistema Moda Italia fanno sapere che gli unici contatti stretti dall’associazione con i grandi marketplace internazionali riguardano le tematiche della contraffazione. La seconda nota dolente è che i tentativi di aggregazione si contano ­ letteralmente sulle dita di una mano: «L’unica iniziativa attiva degna di nota ­ rileva Mangiaracina dall’alto del suo osservatorio privilegiato ­ è quella di eMarco Polo, partita nel 2016 e partecipata da Intesa, Unicredit e Gruppo Cremonini». La piattaforma, che dà seguito al Memorandum of understanding firmato a giugno del 2014 tra il governo italiano e la cinese Alibaba, funziona così: i prodotti delle aziende vengono aggregati e trasportati in Cina, quindi vengono stoccati in un magazzino situato in una free trade zone e infine vengono venduti attraverso Tmall (del gruppo Alibaba); E-­Marco Polo si fa poi pagare una fee dai produttori per ogni referenza caricata. Il consorzio Netcomm, dal canto suo, ha in cantiere due iniziative: «Una partirà a breve ­ racconta il suo presidente, Roberto Liscia ­ e coinvolgerà otto marchi della cosmetica italiana che porteremo in Cina: proprio questa settimana saremo a Shanghai per completare alcuni dettagli operativi. Un progetto simile, poi, lo stiamo portando avanti con un gruppo di marchi del settore calzaturiero». Gian Andrea Positano, responsabile del centro studi di Cosmetica Italia, conferma: «A maggio ufficializzeremo il progetto studiato insieme a Netcomm, che farà sbarcare alcuni dei nostri associati su uno dei portali di Alibaba. Un’iniziativa non semplice, per via dei numerosi problemi normativi da affrontare, soprattutto per quanto riguarda la gestione delle operazioni crossborder». E tra i nostri competitor storici sui mercati internazionali, come si stanno organizzando le piccole e medie imprese? «Sicuramente ­ ricorda Mangiaracina ­ c’è chi si sta muovendo in maniera più sistemica e organizzata di noi. Penso, per esempio ai produttori francesi di vino sbarcati sulle piattaforme di e­commerce cinesi: non è un caso che nell’immaginario collettivo degli abitanti di Pechino il vino è più francese che italiano».